Il lavoro della donna nella montagna autunnale tratto dal racconto Trecce Nere di Domenico Ciampoli

di Acque Sacre

  La foresta colle brume d'autunno lasciava cadere insieme con le foglie vizze le ghiande mature: i venti di tramontana gemevano via per le vallonate, le forre, i burroni, a traverso i rami nudi e i tronchi muscosi delle querce, lungo le prunaie, raccogliendo in turbine terriccio e fronde per andarli a sbattere poi contro i nodosi pedali e le rupi scheggiate. Non v'era più ombra, quando il sole tra una nuvola e l'altra, spruzzava di raggi bianchi la montagna; tutta l'immensa verdura dell'estate, colle sue tenebre umide e gli scherzi di luce era già nella mota e infracidiva sotto le brinate. Gli alberi nudi parevano tremare pel freddo, e drizzavano al cielo i rami, come braccia abbronzate chiedenti soccorso: i rivoletti venivan giù fangosi e gonfi; le folate ululavano fischiando; a stuolo a stuolo, starnazzavano i corvi, si posavano sulle querce, gracchiavano, scovando vermi e lucertole, tra le foglie cadute, o restavano immoti sulla carcassa di qualche bestia da soma. In alto in alto si ammucchiavano nuvolaglie nere, erranti, come facessero una pesante ridda sulla cresta del monte; e di lassù scendevano i solchi delle alluvioni, quasi minacciassero i paeselli delle balze, avvolti nel fumo e nella nebbia. Si presentiva il verno rigido, nevoso; e quella foresta così desolata metteva addosso i brividi, faceva correre al pastrano peloso od al focolare scoppiettante.
  Eppure, in quel tempo, la foresta era più popolata che nel cuore dell'estate, quando vi sono i pastori, le greggi, i mastini, i villeggianti e gli uccelli; era popolata di pezzenti che spogliano il gran signore per cavarsi la fame o svecchiare i cenci. I pastori, le greggi e i mastini se n'erano partiti per le Puglie, alle praterie del Tavoliere; le contadine filavano raccolte nelle stalle o presso al camino; gli uccelli e i signori se n'erano andati in cerca di climi più miti; ma restevano i pezzenti, i porcari con le numerose mandre, i taglialegne con le boscagliole, e i carbonai co' magri ciucarelli; di tanto in tanto passava loro accanto qualche cane randagio, qualche lupo affamato, accolti a furia di sassi, o qualche ladro di bestie, ricevuto non meno benevolmente. Ad ora ad ora da sopra una rupe boscosa echeggiava il suono stridulo di un corno; ed a quel suono, che poteva ricordare le stupende cacce medioevali, accorrevano di tutta lena i maiali, sicuri di trovar ivi il mandriano ed un lauto pasto di ghiande; e spesso al loro grugnito si confondevano le canzoni delle boscaiole che andavano raccogliendo  i rami dei faggi, delle querce, degli olmi, gettati loro dai taglialegne, i quali bestemmiavano lavorando intirizziti su tronchi secolari. E que' rami, accolti in fasci pesanti, eran posti dai sorvegliatori del Comune sul capo alle boscaiole, che in lunga fila li portavano alle carbonaie, per sentieruzzi ora ardui e pietrosi, ora lisci e infangati. Ed era una pietà il vedere floride fanciulle, col capo rientrato nelle spalle vacillare sotto il peso, o spargere nell'un tempo gocce di sudore e di pianto; vecchiette nerborute farsi un gran coraggio e stentare il passo tra un nodo di tosse e una violenta folata; madri amorose reggere con una mano il carico sulla testa e con l'altra il povero bimbo cencioso al petto. Talvolta, ad uno svoltar di rupe, ad un ciglione di forrato il vento imperversava, come volesse rapire in turbine fastelli e donne;  allora la lotta era disperata: cogli abiti sconvolti, le mani aggranchite sul carico, vacillando, puntando i piedi sulla pietra viva, avanzavano d'un passo, di due, di tre, cieche di polvere, di nevischio o di paura, mentre ad una spanna più in là mugghiava l'abisso spalancato. Spesso disperando di vincere le ventate, buttando a terrai fasci, tirandoseli poscia di dietro, con una fune stentatamente. E quando arrivate alle carbonaie gettano col carico un'esclamazione di contentezza, si sentono sulla faccia dire che sono lente come la buona ventura, poltrone come scrofe. E' meglio questo, che la fame — escalmano; e via di nuovo per l'erta o la discesa ad indossar nuovi fasci; e pensano forse allo sposo, al marito, al fratello, al babbo che stentano a lor volta la vita, gli uni nelle fangaie delle paludi Pontine, gli altri ne' pozzi pestiferi da petrolio presso Tocco; quegli fra i ladronecci e le avventure di America, questi al servizio d'un padrone che lo staffilla; ed esse, povere abbandonate, lavorano sino allo spasimo per dieci soldi al giorno, nutrendosi di pan di crusca, quando l'hanno, e dividendo quel pane co' bimbi e i vecchi lasciati alle capanne.        

  

Tratto da Domenico Ciampoli, Trecce nere, Milano, Treves editori, 1882, pp. 27-30.

Per una breve biografia di Domenico Ciampoli

https://www.acquesacre.it/index.php/it/47-ultime-news/207-la-maggiorana-di-domenico-ciampoli

 

La Maggiorana

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